Martin Heidegger nella sede di Google a Mountain View
Su un tavolo nella sede di Google in California ho visto un libro. L'ho aperto. Era Essere e tempo, uno dei libri più importanti del 900. Immagine meravigliosa, e un'ironia del destino
Da Mountain View si vedono le montagne. Il nome che oggi per molti è sinonimo di Google deriva da un colpo d’occhio ampio sulla catena montuosa di Santa Cruz. Scenario che deve aver impressionato molto i coloni agli inizi dell’800 che qui non dovevano vedere altro che una pianura sterminata con queste alture da cornice. Se ci si limita a guardare la mappa non si ha ben chiaro la quantità di spazio che ci si apre davanti una volta lasciata San Francisco. Uno spazio immenso oggi culla della zona industriale più ricca del pianeta. Sono migliaia le aziende tecnologiche, le case, gli alberghi compressi tra la 280 e la 101, le due strade che idealmente delimitano l’aera. Qui molto è ancora in costruzione. Altre aziende arriveranno, nuove strade nuovi alberghi. Qui si ha la netta sensazione di respirare, camminare, essere nel motore che rende il nostro mondo per come è. Il motore del mondo.
Arrivo alla conferenza di Google presto al mattino. La prima cosa che mi colpisce sono i volti delle maschere che ti indicano dove andare, cosa fare. Era tutto un gridare di “Welcome to Google I/O” e “Let’s go, it’s Google I/O”, giocando in rima col nome dell’evento. Le maschere ti accolgono, cercano di darti il cinque, un gesto insieme complice e goffo. Siamo all’evento annuale di Google, non si può che essere entusiasti e pieni di energia. Solo così si può modellare il mondo. Solo così si può essere. Con qualche eccezione, come qui, una scena che mi ha molto divertito.
L’entusiasmo tra i 5.000 arrivati da ogni parte del mondo comunque c’era. Un entusiasmo che spiazza, rischia di farti sentire fuori luogo, a tratti disturba. Gli europei con cui ero tagliavano tutti corto: sono americani, quanto è americano tutto questo. Anche io l’ho pensato, impossibile non pensarlo. Anche io ci ho riso. Ma si può essere altrimenti qui, a Google, nella California dei colossi tecnologici che “si muovono veloce e rompono l’esistente”? Non si può rompere nulla senza entusiasmo e una dose in qualche modo calcolata di violenza.
Rovescio della medaglia. È un entusiasmo totalmente immediato, intendo nell’etimo, non mediato. La tecnologia, tutta la tecnologia che Google ha presentato (ho raccontato qui il senso di Google IO, quello che ho capito, quello che penso sia il loro messaggio principale). Qui si presenta solo il volto buono. Gli assistenti, gli sviluppatori, tutti i presenti ne sono convinti. Google, ai tempi della sua quotazione in Borsa, scelse come suo slogan il motto “Don’t be evil”, non essere cattivo. E qui, mentre parlano di Intelligenza artificiale che sa tutto di te e della tua vita, di assistenti in grado di prendere decisioni per te, di robot, di software che creano immagini e personalizzano email, la loro faccia sembra davvero convinta di quel messaggio. Nessuna ombra. Nessuna smorfia.
Nessuno sembra porsi domande qui. La tecnologia è semplicemente buona. E tutti non vedono l’ora di averne ancora, di più potente, di ancora più prossima alla nostra vita, alla nostra esistenza. Per questo mi ha colpito una immagine. Camminavo per i corridoi della sede di Google. Ho trovato un tavolino. Sul tavolino una versione in inglese di Essere e Tempo di Martin Heidegger. Uno dei libri più importanti del 900 pubblicato nel 1924. Un’immagine di un’ironia pazzesca, sublime.
In Essere e Tempo Heidegger ha espresso un’idea fondamentale: noi siamo in grado di comprendere la nostra vita solo se ci rapportiamo alla morte. Fa una distinzione tra esistenza autentica e inautentica. La seconda - a differenza della prima - è quella che non si pone alcun problema sulla vita, su chi siamo. È l’esistenza che si perde nella chiacchiera, nel “si dice e nel si fa”.
Ancora Heidegger. A cosa ci serve pensare alla morte? Serve a dare un limite temporale alle nostre esistenze. L’orizzonte che tutto finirà ci spinge in qualche modo al pensiero, all’azione. A farci domande. A prendere delle decisioni. La morte pone l’uomo nella storia. E la storia ha un punto di svolta nella modernità quando la tecnologia prende il sopravvento. La tecnologia per Heidegger ha reso l’uomo schiavo, un semplice sondo disponibile, una risorsa da sfruttare. È l’uomo che non è più uomo, ma un essere funzionale, strumentale, parte tra le parti in cui tutti è utile a qualcosa. La tecnica è la conseguenza di un uomo che dimentica se stesso, che non può più scegliere ma subisce, che non comprende ma si adegua al nuovo. È in qualche modo il destino stesso dell’umanità che diventa qualcosa da dominare, calcolare, sfruttare.
Perché quel libro su un tavolino a Mountain View è meraviglioso adesso forse è un po’ più chiaro. Essere e Tempo è un libro complicato e potente. Molti nel Novecento e ancora oggi ci trovano la critica più feroce alla modernità, la matrice della critica alla tecnica, ai suoi strumenti. Ha un centinaio di anni ed è ancora lì a darci letture utili sul nostro mondo, sul nostro essere umani nel mondo (cosa si piò chiedere di più a un libro?). E getta una luce su come potrebbe essere altrimenti: altrimenti il nostro mondo, altrimenti dalla modernità, dalla tecnica-tecnologia; e altrimenti l’umano, l’uomo. Che nell’era della tecnica un po’ si sottomette ad essa un po’ si aspetta la sua potenza, il suo nuovo, con entusiasmo, “let’s go”. Lo stesso entusiasmo che si respira qui, nei corridoi, alle presentazioni degli occhiali intelligenti, degli agenti che ci suggeriscono cosa guardare, cosa mangiare, quanto allenarci, quando riposare, quante proteine ingerire, cosa evitare. Tutto per vivere meglio, vivere di più, vivere scongiurando per sempre il nostro essere finora per la morte. In un mondo calcolato. Dove siamo parametri e dove i parametri diventano il modo in cui viviamo. Numeri. Numeri. C’è ancora spazio per un altrimenti? Ma soprattutto, ha ancora senso cercarlo?