Graziati. Cerebrolesi. Dementi digitali. Social, un dibattito
Sintesi di un botta e risposta gustoso sugli effetti dei social network sulla nostra vita, la nostra psiche, se fanno male, se fanno bene
Negli ultimi giorni La Stampa sta ospitando un dibattito gustosissimo. Riguarda i social network. E parla di come ci stanno cambiando, del loro impatto sulle nostre vite, sulla nostra intelligenza, sulla nostra emotività. Credo (ma è probabilmente così) che tutto sia nato da Cristian De Sica e dal suo post sulla cafonaggine dei social.
Ma dove l’attore non può arrivare, arrivano nell’ordine: uno psicologo (Paolo Crepet), un filosofo (Maurizio Ferraris) e una scrittrice (Caterina Soffici).
In questa newsletter lascerò parlare soprattutto loro: li leggerete in ordine di citazione. Due condannano i social (Crepet e Soffici); uno non li esalta, ma li trova utili, un tassello tra i tanti nella via del progresso dell’umanità (Ferraris). Poi una mia considerazione.
Disclaimer: si parlerà di Platone, di Sartre e di David Foster Wallace. Avvisati.
Crepet: perché i social moriranno
“Fossi uno stockholder di un'azienda che punta tutto sulla comunicazione digitale, cercherei di vendere le mie azioni. Per tre buone ragioni. La prima si chiama noia”.
Crepet pensa al Natale. Ai visori da metaverso sotto gli alberi addobbati. E a un’umanità che si autocondanna a vivere una vita surrogata nella realtà virtuale. Però intravede un movimento dialettico che porterà dall’entusiastica accettazione alla repulsione. La noia. Ma non solo.
"La seconda ragione riguarda le nostre emozioni che sono, per definizione, incomprimibili. Ci abbiamo provato con le emoticon, ma siamo alla frutta”.
La seconda è una ragione più umana. C’è qualcosa che non va nella rappresentazione delle emozioni attraverso la comunicazione digitale.
La gioia langue ad ogni età. Qualche neurologo ha misurato il fenomeno non esaltante del calo del Ql (quoziente intellettivo, ndr) individuale: è graduale, sembra inarrestabile. La chiamano "demenza digitale": il nostro cervello delega sempre più alle macchine privandosi di skill strategici per la sopravvivenza.
Ok, chiaro.
Ultima ragione: la libertà. Una persona che è diventata dipendente dalla comunicazione digitale come può andare in un luogo della terra dove non c'è segnale? Il mondo si sta riorganizzando non secondo ideologie, ma diritti e stiamo scoprendo che non sono solo i tiranni a privarcene, ma anche ciò che noi stessi abbiamo prodotto.
Le "ideologie sono libertà quando si pensano e galere quando si realizzano" ha scritto Jean-Paul Sartre, ma visto che possediamo la chiave della nostra prigione, potremmo anche provare ad aprire la porta con coraggio. Fuori ci saranno meno influencer e blogger, ma più creatività e innovazione. Perderemo un po' di comodità e di visibilità immotivata, ma acquisiremo la libertà di immaginarci in un mondo diverso, meno mediocre e noioso.
I social sono una gabbia dell'altrove? Mi impediscono di pensare il diverso? Che le cose sono come sono, ma potrebbero benissimo essere altrimenti? Ci penso su. Poi il giorno dopo arriva Ferraris.
Ferraris: la tecnica salva l’uomo, i social sono un bene
Una delle caratteristiche dell'umano è di essere un animale sociale, dotato di tecnica, compresa quella forma di tecnica che è il linguaggio e, più avanti, quell'altra tecnica che è la scrittura. Cosi, non dobbiamo pensare che la tecnica sia solo moderna, c'è dall'origine dell'umanità e, ben lungi dal disumanizzarla, la umanizza, perché senza di essa saremmo solo degli animali particolarmente deboli e disadattati.
Ferraris parte da Platone, che nel Fedone condanna la scrittura (scrivendolo). Il filofoso, l’intellettuale, sembra suggerire Ferrraris, ha avuto sempre da storcere il naso contro l’avvento di mezzi di comunicazione pop. È stato così per Platone (che odiava la scrittura), per Heidegger (che odiava le macchine da scrivere), per Nietzsche (che odiava i giornali). Ricordate il mito della caverna di Platone?
Ci saranno stati sicuramente degli imbecilli nelle caverne, solo non hanno lasciato traccia, ed è su questa circostanza che si è fondato il mito del buon selvaggio; che oggi imbecillità sia più documentata, grazie ai social, è un male o un bene? Secondo me è un bene, non solo perché è più documentata anche l'intelligenza, ma anche perché, comunque la si metta, l'ignoranza è un male.
Insomma, per Ferraris (che non ha social) il fatto che sui social si documenti tutto alla fine è un bene perché l’imbecillità è più facile da individuare e schivare, evitando che si scambi l’imbecille per un buon selvaggio, visto che ora si ha la possibilità di capire bene la differenza tra un imbecille e il romanticismo forzato della bellezza dei bassi fondi.
Sarà così? L’argomento non mi convince molto. Penso alle cose imbecilli viste sui social. Hanno evitato che io le facessi? O le ho fatte uguale? Hanno avuto effetto su di me? Ed era positivo? Arriva Soffici.
Soffici la tocca leggero: è roba da cerebrolesi
È lei che cita Foster Wallace di Una cosa divertente che non farò mai più, citando il divertentismo fine a sé stesso indotto dal fatto di fare qualcosa che per forza di cose deve divertire. Lo cita perché prima di scrivere questo pezzo ha passato qualche ora a sfogliare i reel di Instagram. Poi arriva la parte rock.
La gente guarda e mette cuoricini. Diventano virali, raccolgono visualizzazioni a sei cifre e questo dà la misura del livello di lobotomizzazione in cui siamo calati. Ora, la domanda sembrerà banale, ma forse non lo è cosi tanto: perché pensano tutti di essere dei Ferragnez? E perché questi video diventano virali? […] Il fatto è che non riesco a trovare delle risposte.
Hard rock.
Masse di cerebrolesi passano ore a guardare altre masse di cerebrolesi, in un abbrutimento sociale dove il famoso quarto d'ora di visibilità teorizzato da Andy Warhol non si nega a nessuno, ma essendo basato sul nulla, la fama del cerebroleso è destinata a sfaldarsi rapidamente per farlo presto ripiombare nell'oscurità della rete dove verrà di nuovo fagocitato dall'anonimato della sua insignificanza. Una tristezza senza fine, un luogo da incubo dove non c'è niente di divertente e dove non tornerò più.
Considerazioni: lo stato gassoso
Reel in inglese vuol dire rullo. Un rullo di cose che ci attraggono allo schermo è l’effetto della “tiktokizzazione” dei social. Non si sfugge. Pure Amazon ora vuole fare TikTok pensando a rulli di prodotti da sfogliare. Come reclame continue. Magari fatte dal basso. Una prateria vergine per milioni di influencer.
Al dibattito per me sfugge un elemento. Qui non stiamo parlando più di social. Non c’è quasi più niente di social sulle piattaforme. È il social elevato a spettacolo. È intrattenimento. Su Instagram, su TikTok si va per distrarsi. Un balletto. Un’esibizione con lo skateboard. Tecniche di calcio. Calciatori e gesta storiche. Gente che s’arrampica sui muri. Mma. E poi carbonare. Panificazioni. Valanghe insensate di creme al pistacchio. È spettacolo. È tutto ciò che ci piace all’infinito.
Tutto questo ci rincoglionirà? Non fatico a pensarlo. Lo prevede il meccanismo in sé (il rullo). Un rullo per sopravvivere ha bisogno di carichi leggeri. Di frivolezza. Di stronzate. Una danza. La crema di una carbonara. Una musichetta sempre uguale che fa da sottofondo scenari diversi. Ma desiderabili. Sempre uguali nella loro desiderabilità.
E intanto il dito va dal basso verso l’alto. Come a cercare anche lui leggerezza. I social dei reel sono una versione leggera e abbacinante del mondo. Che magari andrà pure avanti. Seguirà la sua linea di progresso come dice Ferraris. Non per forza verso la decadenza. Ma verso la sua gasificazione.
Un mondo allo stato gassoso.
Un po’ più leggeri? Almeno sulle piattaforme, sì. Un po’ più stupidi e digitalmente dementi? Forse. Celebrolesi? Chissà. E se poi fosse pure un bene? Magari, anche. Potrebbero avere ragione tutti e tre dietro i loro steccati culturali.
Voi che ne pensate?
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E se i social fossero lo specchio della pattumiera che siamo? Snob (vedo ma non interagisco), egotici, autoreferenziali, un po' De Sica e un po' Burioni, idioti (anche). È l'umanità bellezza...